è un titolo nato dalle tante volte che mi sono dovuto fermare, a volte per scelta, a volte per obbligo

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Guerra e Accoglienza

Mai come in questo periodo la parola “accoglienza” si contrappone in modo ripetitivo alla parola “guerra”. Trova spazio dappertutto. Dalla tv al web, dalle scuole alle chiese, in famiglia, per strada e al bar. Nelle radio e nelle canzoni. Ne parlano in parlamento e ne straparlano certi parlamentari. E poi testimonianze, immagini: tante immagini, che commuovono, che ti stupiscono e a volte fanno riflettere. Tante e alcune che ti fanno incazzare. In questo brutto periodo di oppressioni di popoli scatta l’azione, l’agire verso una solidarietà a volte vera a volte finta, a volte fatta di pancia a volte fatta di testa. A volte fatta di niente. Mi piace pensare però ad un azione solidale sempre fatta in buona fede. Ogni volta che sale alle cronache l’ennesima guerra, automaticamente ci si dimentica della precedente. Che caos ! Che delirio !

La parola “accoglienza” legittima le diversità, determina la nostra capacità di fare “un posto, uno spazio” per l’altro condividendo e accettando, con rispetto e possibilmente con amore. Esiste però il rischio di non poter fare una “buona accoglienza”, facendo inevitabilmente una “cattiva accoglienza” significando quindi per una persona l’”essere bene o male accolta”. Ciò che provoca una cattiva accoglienza spesso è il risultato di un’azione solidale verso l’altro , senza un progetto, fatto di pancia, senza aver fatto un po’ di considerazioni, senza aver riconosciuto i propri limiti, ma anche le proprie possibilità o potenzialità e questo non riguarda i singoli cittadini ma anche le istituzioni preposte. Tutto ciò mi riporta a quanto sta avvenendo in questi giorni con i profughi di guerra dall’Ucraina. Famiglie con un cuore enorme che aprono le porte della loro casa e fanno spazio a chi sta fuggendo da una guerra. Come non reagire di pancia di fronte a milioni di persone che in venti giorni sono scappati da un paese con poche cose . Esseri umani che da una vita normale, con professioni anche di un certo livello, belle famiglie, bambini e ragazzi con sogni e progetti, tutti indistintamente si vedono in un attimo catapultati in un altro paese, culturalmente diverso e una lingua diversa. Alcuni arrivano in strutture messe a disposizione dalle prefetture, altri accolti da famiglie che d’impeto dicono SI. Famiglie accoglienti che però dopo poco si sentono soli di fronte a questa esperienza , sicuramente coinvolgente ed emotivamente di un certo spessore. Ma i primi feed back che arrivano dalle famiglie dopo soli pochi giorni di accoglienza è la sensazione di essere soli di fronte a questo loro SI, è il non sentirsi adeguatamente supportati. Mi sono sentito dire da qualche dirigente istituzionale “ma non lo sapevano queste famiglie che fare accoglienze di questo genere avrebbe comportato delle difficoltà ? Dovevano pensarci prima! “. E tu istituzione quando sai già in anticipo che tante famiglie si renderanno disponibili a dare il loro SI , potresti strutturare un sistema di tutela e di supporto per loro ? Non siamo qui a cercare chi è colpevole o chi è stato ingenuo. Non è importante. E’ importante invece ragionare, ora e subito, in termini progettuali, di coordinamento, definendo i ruoli di chi si occupa di realizzare l’accoglienza, dei trasferimenti, di monitoraggio e di supporto. Solo così la parola ACCOGLIENZA potrà assumere un significato inclusivo, rispettoso. In definitiva un atto d’AMORE utile e necessario a chi in questo momento sta chiedendo aiuto.

2 commenti

  1. Riflessione di spessore e assolutamente condivisibile. Ma la domanda è : quante “risposte” inappropriate dovremo ancora sentire?

  2. Grazie. Accoglienza oggi, e da tanti e tanti anni, e ancora per tanti anni. Grazie per quel che fai, per quel che fate.

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